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LA PROMESSA DELL'ASSASSINO
(EASTERN PROMISES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 febbraio 2008
 
di David Cronenberg, con Viggo Mortensen, Naomi Watts, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl, Sinéad Cusack, Jerzy Skolimowski. (Gran Bretagna, 2007)
 
Mentre il cinema tira i remi in barca e gli autori ripiegano sugli schemi collaudati del film di genere, David Cronenberg non contraddice la regola. Come per la folgorante mostruosità quotidiana del bellissimo A HISTORY OF VIOLENCE di due anni fa firma una "specie" di noir sulla mafia: ma in quelle virgolette è nascosto il segreto dello splendore e della forza trascendentale di questo suo ultimo film. LA PROMESSA DELL'ASSASSINO non rappresenta soltanto un ulteriore capitolo memorabile di un genere che ha donato al cinema tanti capolavori. Ma un esempio eclatante di come la scrittura cinematografica viva di una sua splendida autonomia creativa; di come si significhi ipnoticamente nei confronti, ma non necessariamente nella soggezione del soggetto trattato. E di come, naturalmente, il suo autore si confermi fra i più autentici e continui (è sempre il caso di Oliver Stone, Spielberg, Scorsese, Tarantino , lo stesso Lynch?) del cinema americano contemporaneo.

Quando si dice mafia pare si debba distinguere. Questa russa dalle lunghe mire sull'Inghilterra del 2007 descritta nella sceneggiatura di Steven Knights (che in DIRTY PRETTY THINGS di Stephen Frears già raccontava storie di immigrati) si chiama in effetti Vory v zakone: una criminalità brutale (che Cronenberg non potrà evocare che ricorrendo ad una equivalente, ma non certo gratuita violenza espressiva), sprofondata negli abissi dei rituali più tenebrosi, cresciuta all'interno del nuovo capitalismo russo ma risalente ai gulag staliniani degli anni Trenta. Ed eccola allora, nella sua logica aberrante, assolutamente ermetica ad autonoma al contenitore esteriore della Londra nella quale si è esportata. Una Londra delirante, quasi irriconoscibile (ma intanto l'ex-spia Litvinenko viene eliminata a pochi passi dai luoghi delle riprese: maestro dei legami astratti, il regista sempre più raggiunto dal presente) se non per le acque limacciose di un Tamigi ridotto a ricettacolo di cadaveri. Cronenberg confronta questo sfondo alla estraneità dei suoi personaggi, tutti russi, con una vena magistrale, una scelta della propria paletta espressiva dedita a sottolineare quello che è il vero soggetto del film, l'ambiguità, e l'eventuale possibilità di combatterla. Ambiguità; se non relatività, di una ragnatela di rapporti umani che l'autore sa da sempre rendere misteriosa, metafisica. Nella quale, tra i poli opposti del Bene (la levatrice, che oltretutto veste la grazia un po' misteriosa di Naomi Watts, destinata a donare e proteggere la vita) e del Male (il mellifluo ristoratore, del quale la gestualità bonaria proposta da un Armin Mueller-Stahl sovrano quasi non lascia trasparire gli abissi) si situa la sommità instabile, quella abitata dal personaggio indimenticabile del film, il gelido, fragilizzabile nella propria mutazione, straordinario di duplicità, vero e proprio alter-ego del regista, Viggo Mortensen. Ma ancora, la violenza psicotica e degenerata dello scatenato Vincent Cassel, o la figura paradossale, finemente grottesca nel suo moralismo dello zio della bella, figura protettrice ma che addirittura proviene dai quadri della disciolta KGB, e che Cronenberg affida alla personalità straniante e provocatoria del grande ed ormai inattivo cineasta polacco degli anni Settanta, Jerzy Skolimowski .

Immediatamente, dalla prima sequenza del film sapremo che ognuna di queste psicologie emblematiche sarà iscritta in un taglio della inquadratura, della luce, della scelta dei colori o della loro saturazione che, nella sapienza del loro sguardo esaltano il fascio di sentimenti contradditori che animano un film immerso nel buio, ma a tratti persino sentimentale . Enigmatico: come nel piano finale, Viggo è ormai seduto nel posto del padrone, ma con una piega del volto che non sapremo mai in quale misura, in quale direzione complice. Accusatore: come in quel suo modo di abbandonarsi alla violenza incontenibile (le scene, ormai cult, di Mortensen vestito dei suoi soli tatuaggi che combatte contro i pugnali dei killer nel bagno pubblico), ma quasi a volerla proprio per questo esorcizzare. Accusatore ancora: questa volta quasi politico, nel sottolineare la crudeltà della sopraffazione nei confronti delle prostitute ucraine, agli antipodi di una certa tolleranza mondana e imbecille che le circonda. O, quasi sorprendentemente, pietoso: quando basta una sola inquadratura, la tragica bellezza di un corpo dorato disposto in sublime armonia sullo sfondo dei velluti rosso sangue del bordello per renderci partecipi di contraddizioni infami.

Pittura, come sempre nel regista canadese, della carne, delle sue lacerazioni, degli strumenti, dei metalli destinati a ferirla. Affresco terrificante, con quelle epidermidi tatuate sulle quali gli affiliati di Vory v zakone iscrivono i segreti delle loro esistenze: paesaggi inquietanti, premonitori per le indagini di un cineasta che sui rapporti fra il corpo e lo spirito ha costruito tutta la sua poetica.


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